Ci sono alcuni che si infastidiscono da chi non conosce o almeno non ha nemmeno sentito parlarne (ma poi da chi?) del regista teatrale Giorgio Strehler e sarebbe da chiedersi se vale lo stesso per l’artista tedesco Joseph Beuys che ha in comune con il ‘nostro’ l’anno di nascita e l’aver fatto la guerra ma dalla parte sbagliata, quella davvero sbagliata. Comunque quest’ultimo fra le tante cose fatte, moltissime in Italia, e teorizzate, si lasciò andare chissà probabilmente era lo ‘spirito dei tempi’ comunque assolutamente coerente con la sue attività - si può oggi considerarlo il ‘padre’ del cosiddetto ‘Artivismo’ degli artisti contemporanei - insomma, ha detto “siamo tutti artisti” che fa una certa differenza con i “quindici minuti di celebrità” predetti da Andy Warhol - di pochi anni più giovane dei due citati e figlio di immigrati di quella guerra, forse polacchi o slovacchi o persino ucraini, negli Stati Uniti col cognome originario di Warhola - che anticipava sì l’era dell’immagine, ma oggi contro-sorpassato da Beuys che con l’auto-esposizione zero-privacy arriva quasi ad abbracciare Oscar Wilde ovvero fare della propria vita un’opera d’arte. Finisco così ‘L’estetica, si sa, è il campo e il compimento di ogni ingiustizia’. Non è mia - ovviamente - è di Fabio Mauri.
Mi è ricapitato fra le mani “La camera chiara” di Barthes, sottotitolo “nota sulla fotografia” che poi è una elaborazione del lutto della madre partendo da una foto che peraltro non è inserita nel libro e mi è tornata alla mente una foto della mia, di madre, e una volta digitalizzata mi accorgo che era incinta (di mio fratello che sarebbe nato qualche mese più in là, l’anno dopo - io non ero ancora in progetto): quindi è il 1953 e aveva 23 anni. La fotografia analogica è un oggetto, si conserva e invecchia, aveva ragione lui, Roland.
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