Sto lavorando su un testo dove c’è l’unico artista nominato nelle opere, in tutte le opere, di William Shakespeare - deve, dicono, averne visto a Londra delle illustrazioni nei libri di Pietro Aretino - è Giulio Romano anche architetto e oggi si potrebbe aggiungere ‘designer’ visti i suoi progetti di arte applicata tipo decorazioni per residenze ed oggetti di uso quotidiano, soprattutto pittore - effettivamente nato a Roma entro l’ultima decade del ‘400 - allievo e collaboratore di Raffaello Sanzio perfino continuatore di opere del maestro, davvero un maestro, prematuramente scomparso. Però. Della generazione seguente quindi spesso insofferente ad alcune ‘rigidità’ del Rinascimento seppure nella fase finale detta ‘matura’ e che, anche attraverso il Michelangelo pittore della Sistina, modifica corpi e prospettive oltre i colori decisamente più brillanti, e infatti Shakespeare deve essere stato attratto dalle immagini di, in english, Julio Romano, figure che come vuole la Maniera sono allungate, contorte, inserite in spazi vertiginosi. E ancora: perché anche lì - a Londra - il gusto, pure quello del teatro, stava cambiando, Shakespeare scrive questi ultimi testi - dicono 5 detti ‘romance’ - intorno la fine della prima decade del ’600 mentre nel frattempo Caravaggio muore, uno che insieme ad Annibale Carracci avevano già gettato i semi del Barocco a Roma, Francesco Borromini scendeva dal Canton Ticino e Lorenzo Bernini, col padre, saliva da Napoli.
Mi è ricapitato fra le mani “La camera chiara” di Barthes, sottotitolo “nota sulla fotografia” che poi è una elaborazione del lutto della madre partendo da una foto che peraltro non è inserita nel libro e mi è tornata alla mente una foto della mia, di madre, e una volta digitalizzata mi accorgo che era incinta (di mio fratello che sarebbe nato qualche mese più in là, l’anno dopo - io non ero ancora in progetto): quindi è il 1953 e aveva 23 anni. La fotografia analogica è un oggetto, si conserva e invecchia, aveva ragione lui, Roland.
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